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Concilium 2-2014 Werner G. Jeanrond (Oxford)
ORTODOSSIA E IDENTITÀ CRISTIANA
Specialmente in periodi di cambiamento radicale alcuni cristiani sentono il desiderio di un'identità religiosa più strettamente definita per meglio far fronte alla rapida trasformazione nel nostro tempo della religione, della società, della cultura, della comunicazione, dell'educazione e della politica - che sono conseguenza di una globalizzazione che si va sempre più intensificando, delle migrazioni di massa, della pluralità e dell'internazionalizzazione del commercio, dei media, dell'informazione e delle strutture di potere. In questa situazione, gli uomini e le donne potrebbero sentirsi minacciati e, quindi, potrebbero rivolgersi alla loro fede cercando un porto sicuro che dovrebbe salvaguardare la loro vita, sempre più vulnerabile, dalle forze inquietanti del cambiamento. Di per sé, non rappresenta un problema il fatto che ci si aspetti che la fede religiosa fornisca un orientamento alla vita. Il problema non sta nella maggiore ricerca di orientamento in quanto tale, ma nel tentativo di fuggire dalle grandi dinamiche della vita religiosa stessa.
A suo modo, la fede cristiana è sempre stata profondamente destabilizzante: Cristo ha invitato i suoi amici e seguaci ad abbandonare ogni schema securizzante o rete identitaria e, invece, ad avere fiducia nella guida dello Spirito trasformante di Dio. Pertanto, qualsiasi tentativo di domare la natura radicale del discepolato cristiano aggrappandosi agli aspetti presumibilmente immutabili della tradizione è destinato a fallire.
Chi identifica la fede cristiana con forme specifiche di espressione, come, per esempio, la pretesa da parte di alcuni difensori della liturgia tridentina secondo cui Dio può essere più adeguatamente adorato nella messa celebrata nel linguaggio "classico" del passato e organizzata da un sacerdozio esclusivamente maschile che veste singolari paramenti e gira le spalle a un'assemblea per lo più passiva, corre il rischio di idolatrare gli aspetti di un'epoca passata. Qualsiasi tentativo da parte di gruppi "tradizionalisti" di selezionare e isolare aspetti del passato al fine di individuare un livello desiderato di ortodossia trasforma il concetto dinamico e globale di tradizione cristiana in una selezione statica di simpatie e antipatie. Col che non sto dicendo di escludere il latino dal serbatoio delle espressioni liturgiche. Piuttosto, critico i tentativi di attribuire uno status esclusivo al latino rispetto ad altri approcci linguistici per il culto cristiano. La tradizione è un concetto dinamico e ambiguo sempre bisognoso di riflessione critica e autocritica. Pluralità e ambiguità possono essere adeguatamente rispettate solo attraverso più ampie e comuni forme di deliberazione.
La politica dell’identità cristiana ha colpito non solo quelli liturgici, ma naturalmente anche gli sviluppi dottrinali. Alcuni cristiani hanno considerato i dibattiti sull'ordinazione delle donne ai ministeri di sacerdote e vescovo nelle chiese cristiane come sfide all'identità cristiana ortodossa, mentre altri si sono avvicinati a questi dibattiti più in termini di attuale adattamento della fede cristiana all'emergente autocomprensione degli uomini e delle donne di oggi. In altre parole, le questioni di genere in materia di limitazione di accesso agli uffici ecclesiali non sono comprese da tutti i cristiani come necessariamente pregiudicanti l'ortodossia della pratica di fede cristiana. Quanto è grande o quanto è ristretto l'orizzonte dell'ortodossia in un dato momento?
Trattare l'ordinazione delle donne come una questione di ortodossia o di eresia solleva una serie di questioni ermeneutiche: quali fonti sono necessarie per la determinazione dell'ortodossia e che criteri potrebbero essere applicati? Il fatto che le donne non sono state ordinate nel corso di un lungo periodo della storia della chiesa ci fornisce un criterio di tradizione che potrebbe escludere tali ordinazioni per il futuro? L'ordinazione delle donne (o, se per questo, ogni ordinazione tanto maschile quanto femminile) ha un fondamento nella Bibbia? L'ordinazione delle donne è un dovere di ragione per i cristiani in un tempo consapevole del genere come quello che viviamo? Chi ha il diritto di controllare o limitare la deliberazione teologica in relazione a tali domande? E che proposte per la determinazione dell'ortodossia si dovrebbero avanzare?
Dovremo tornare su queste domande nel prossimo paragrafo. Qui, tuttavia, è importante notare che qualsiasi questione o dibattito dottrinale può essere trascinato nell'orbita della politica identitaria, cioè può essere usato o abusato per scopi relativi al desiderio, da parte di persone o di gruppi, di definire certezze in tempi di cambiamento radicale. Ogni dottrina può essere evocata in modo da escludere il dibattito, il rinnovamento e il cambiamento e quindi per stabilizzare una qualche forma di status quo attuale o immaginato.
Seguendo Paul Ricoeur, si potrebbero distinguere due concetti di identità:
1. una identità che si basa sul desiderio di medesimezza (idem), e
2. l'identità che è ispirata da un desiderio di Vera e propria ipseità, per diventare un io in comunione con altri io emergenti (ipse).
Se il nostro desiderio si concentra sul mantenimento di una comprensione immutabile della dottrina e sulla protezione della natura invariabile della fede e della continuità inalterabile della chiesa, allora siamo impegnati in un progetto di identità-idem. Se, invece, siamo preoccupati di cercare un'autenticità dinamica della pratica della fede cristiana nel nostro tempo, siamo impegnati in un progetto di identità-ipse. In altre parole, aspiriamo a un'identità chiaramente definita di fede e di chiesa (idem), considerando con un po' di tristezza il fatto che alcune espressioni della nostra fede sono cambiate? O vogliamo trovare espressioni sempre più adeguate e fedeli del nostro coinvolgimento nel progetto di Dio sulla creazione e nella riconciliazione in Cristo (ipse)? Che tipo di ortodossia stiamo cercando?
……….
Un riferimento all'identità cristiana, quindi, non ha bisogno di essere un riferimento a un dato corpo di proposizioni immutabili a cui mi viene chiesto di acconsentire (idem) senza ulteriori discussioni, ma potrebbe essere un invito comune al compito condiviso da tutti i cristiani di avvicinarsi al centro della loro fede partendo dalle proprie rispettive tradizioni ecclesiali (ipse). E importante ricordare che i cristiani non credono nella Bibbia, nella tradizione, nella liturgia, nella preghiera, nei sacerdoti, nei vescovi, nei teologi, nella chiesa o anche in qualsivoglia tipo di politica identitaria. Al contrario, i cristiani credono insieme nel Dio uni-trino, nella migliore delle ipotesi sostenuti da tutte queste risorse di fede, a volte anche senza queste, come Agostino ci ha ricordato con tanta enfasi. Naturalmente, la fede cristiana è mediata dalla Bibbia, dal culto, dalla preghiera, dalla liturgia, dai sacramenti, dalle tradizioni, dai sacerdoti e dai vescovi, dall'insegnamento è dall'educazione, dalle opere di fede, carità e speranza, e dalla riflessione teologica. Ma la fede cristiana non può essere prodotta o fatta. A differenza dei nostri tentativi umani di definire le identità, la fede è un dono di Dio. Così come la carità e la speranza.
Il compito di esplorare modi di essere cristiani nel mondo d'oggi, allora, richiede più di una semplice attenzione e di un consenso a una qualche teologia della fede. Le rivendicazioni cristiane di ortodossia devono essere più centrate su un'ermeneutica dell'amore e della pratica dell'amore. L'amore è qui inteso come dono di Dio che permette a donne, uomini e bambini di relazionarsi gli uni agli altri, a Dio, alla creazione divina e al loro io emergente, cioè un dono divino che abilita la relazionalità umana. Come tale si differenzia radicalmente da qualsiasi tipo di romantico sentimento di felice autoaffermazione. I testi biblici testimoniano questa rete di amore divinamente ordita. E Tommaso d'Aquino ci ha esortato a capire che amare non deve essere confuso con il provare piacere: l'amore è più di un sentimento di attrazione. Coinvolge il desiderio e l'impegno per l'alterità, anche se sembra difficile accettare l'altro, il nemico, gli emarginati, i malati e gli insignificanti. La pratica cristiana dell'amore implica rispetto per l'alterità dell'altro, così come per l'alterità emergente dell'io; desidera scoprire di più sulla differenza e sull'alterità; è aperta a esplorare il mistero di Dio e della persona umana. Quindi, l'amore è più che il riconoscimento della soggettività dell'altro; cerca comunione con l'altro anche se non necessariamente una piena unità.
Dobbiamo essere grati ad Agostino per averci dato la miglior categoria in termini di esplorazione della corretta pratica cristiana (ortoprassi), vale a dire l'amore. Tuttavia, abbiamo bisogno di trascendere la sua proposta discutendo le particolari sfide connesse con il dono dell'amore di Dio. Dal momento che l'amore non è principio, ma pratica, non ha senso esigere da noi stessi e dagli altri che sia soddisfatto un certo numero di richieste prima di iniziare l'avventura dell'amore: per esempio, soddisfare certe aspettative spirituali o fisiche, aver sviluppato chiaramente un progetto di massima, sapere già in anticipo quanto esattamente l'amore trasformerà il rispettivo io e l'altro. Dal momento che l'amore è una forza trasformante, nessun progetto di avanzamento può mai coglierne le dinamiche genuine. In questo senso, l'amore non conosce alcun presupposto diverso dalla nostra volontà di incontrare l'alterità, anche l'alterità radicale di Dio, e la nostra disponibilità a essere trasformati nel processo di prenderci cura degli altri.
Esplorare il dono di amore, per necessità, attirerà la nostra attenzione anche sugli altri in prospettiva religiosa, cioè su coloro la cui pratica religiosa differisce dal discepolato cristiano.


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