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Tra Dio e il cosmo Una visione non dualista della realtà. (Raimon Panikkar)
Gwendoline Jarczyk: In che modo lei coniuga nel suo sacerdozio, nel suo essere prete cattolico, da una parte la cultura occidentale in cui è immerso il cattolicesimo e dall’altra parte la profonda esperienza dell’India, la quale pure determina una vera e propria appartenenza?
R.P. Quando parliamo delle nostre realtà più intime e vere, è difficile trovare il giusto inizio – e ci capita a volte di cominciare con qualcosa che non è la cosa più importante... Non si sceglie di diventare preti. Si è scelti. E questo vale per tutte le religioni. Non è il frutto di un atto di volontà, è piuttosto l’accettazione di una vocazione, che consiste proprio nel fatto che si è «chiamati». Per parte mia, io non escludevo il sacerdozio come simbolo dell’homo religiosus, ma mi tenevo aperto a ogni altra eventualità. E la mia vocazione mi è venuta in maniera insospettabile...
Come ho inteso io il mio sacerdozio? L’ho inteso come una mediazione – un termine che sicuramente ha per lei un senso importante. Il prete è un mediatore, non un intermediario.
Gw.J. Spesso, invece, le due figure vengono fuse insieme... Si può dire, in prima istanza, che il mediatore non si aggiunge come un terzo elemento fra i termini che collega, il che vuol dire in sostanza che egli annulla se stesso nell’unità che promuove; l’intermediario, invece, rimane quello che è, come un terzo termine che avvicina realtà lasciate alla loro esteriorità reciproca. Ma come applica lei queste categorie alla personalità del prete, al suo essere e al suo agire?
R.P. Il prete sarebbe un semplice intermediario se si contentasse di «mettere in rapporto» l’uomo e il sacro, per esempio celebrando matrimoni o regolando altri affari. Ma in realtà il prete, nel senso pieno del termine, non è il burocrate o il funzionario di Dio, il go between fra il sacro e il profano. Egli può dirsi mediatore, può meritare questo nome solo se appartiene di fatto, nel suo spirito e nella sua carne, alle due realtà che ha il compito di collegare.
In effetti, è all’uomo in quanto tale – e in maniera esplicita, secondo la tradizione cinese antica – che compete questa funzione di mediazione fra cielo e terra. L’uomo non è né solamente Dio né solamente animale, ma partecipa al contempo dell’animalità e della divinità – della materialità e anche di ciò che è spirituale – sotto l’egida concreta della libertà. La pienezza dell’uomo, infatti, consiste nel far parte, senza tuttavia essere lacerato, di queste due grandi dimensioni della realtà di cui noi siamo costituiti – corpo/materia, animalità/biologia da una parte, e spirito/coscienza, libertà/divinità dall’altra parte, – mantenendo questi elementi in quella che potremmo definire una tensione di polarità, non distruttrice ma creatrice.
Gw.J. Lei evoca qui una funzione o una vocazione che sono universali, e che riguardano l’uomo in quanto tale – ogni uomo, per il semplice fatto di essere uomo. Come intende allora l’esistenza di una vocazione speciale come quella del prete, uomo preso di mezzo agli uomini?
R.P. Per comprendere la mediazione essenziale di cui abbiamo appena parlato – mi concedo qui una breve spiegazione storico-religiosa – abbiamo bisogno di una categoria oggi troppo misconosciuta, che è quella di iniziazione.
Fin tanto che non si è rinati seguendo il movimento di tutte le fasi dell’uomo – penso alle parole di Gesù a Nicodemo (Giovanni 3,3s.) –, fin tanto che dunque non si è rinati come
dice il Veda, non si accede al livello umano. Per significare questa rinascita, praticamente tutte le religioni prevedono dei riti di iniziazione, che conservano il loro valore anche se sono minacciati di abusivi irrigidimenti. Anche il sacerdozio ha il carattere di una iniziazione. Come ogni realtà di questo tipo, esso è naturalmente soggetto al rischio di deformazioni più o meno gravi; e bisogna senz’altro riconoscere che il sacerdozio cristiano, soprattutto quello cattolico, è stato influenzato da elementi diversi che non gli sono intrinsecamente propri. Così, per esempio, si fa del prete uno specialista fra altri: e in più, gli tocca fare l’amministratore, il padre spirituale, il presidente di comunità e di assemblee liturgiche, il monaco, ecc. Insomma, gli tocca assumere su di sé mille cose che non fanno parte dell’essenza di questa funzione. Siamo allora, molto semplicemente, di fronte alla crisi del sacerdozio.
Gw.J. Rimane la mia domanda: se il prete non deve essere uno «specialista» del sacro, perché c’è bisogno di persone che siano specificamente incaricate della funzione di mediazione a beneficio di tutti?
R.P. In primo luogo, sfumerei quel «bisogno». Non è una necessità né storica né religiosa, e ancor meno logica. Si può certo invocare una specie di legge dell’esistenza storica, che fa sì che l’universale non possa essere raggiunto se non attraverso una particolarità, una determinazione singola. Il sacerdozio non si giustifica e non si comprende se non in grazia del suo intrinseco riferimento al commercio fra il divino e il cosmico, e in particolare all’umano di cui abbiamo parlato: per diventare visibile ed efficace, questa funzione viene assunta da alcuni che accettano di consacrarsi a questo «commercio», a questo scambio, simboleggiato da un sacrificio, una immolazione, l’erezione di una pietra e tante altre cose ancora.
È così che ho sempre inteso il sacerdozio, benché io vi sia entrato per una porta molto stretta, la porta cattolico-romana. Ma è una cosa che ripeto spesso: se rifiuti di entrare per una porta, non farai che rimanere sulla soglia. Bisogna che tu varchi la porta; e poi, una volta che sei entrato in questo regno della mediazione, devi liberarti da ogni mentalità o ideologia che faccia di te un burocrate, o anche il rappresentante di un clan particolare – con la coscienza di un’eccellenza o di una superiorità a cui un’appartenenza di questo tipo spesso si accompagna. Non era il mio caso, e per tutta la mia vita ho cercato, grazie a Dio, di dimostrare che tutt’altra cosa era perfettamente possibile. È sempre in agguato, infatti, il pericolo di identificarsi con il proprio ruolo. Ma credo che le circostanze della mia vita mi abbiano preservato da questo pericolo, e che mi sia stato possibile correre pienamente il rischio di essere fedele a quello che pensavo e a quello che volevo essere. Io sono dunque un prete cattolico, e credo nel Cristo. La mia ordinazione sacerdotale, mi piace sottolinearlo, è tuttavia «secondo l’ordine di Melchisedec».
Gw.J. Secondo l’ordine di Melchisedec?
R.P. Cioè di quel personaggio, di quel re di cui parla la Bibbia e al quale fa riferimento la teologia del sacerdozio. Non era ebreo, non credeva in Jahveh, apparteneva a una razza maledetta, e ciononostante – come attestano la Bibbia e san Paolo – è detto superiore ad Abramo; d’altro canto è lo stesso Abramo che ne riconosce la regalità, dopo che Melchisedec ebbe offerto il sacrificio del pane e del vino. I preti cristiani non appartengono dunque alla razza sacerdotale della tradizione ebraica. Gesù non apparteneva alla tribù sacerdotale di Levi. Lo ripeto: i preti cattolici sono ordinati, come riporta il rituale, secundum ordinem Melchisedech, «secondo l’ordine di Melchisedec».
Questa iniziazione fa di loro una cosa ben diversa dai burocrati di un’istituzione qualsiasi – e questo senza che sia rinnegata in alcun modo l’eventuale radicamento in questa o quella istituzione, la quale non è soltanto un male necessario. No. Poiché l’istituzione appartiene all’ordine naturale delle cose, anche se può divenire un male.
Gw.J. Come sfuggire allora a ogni sentimento di superiorità? Concretamente, in che modo il prete che lei è riesce a non guardarsi come appartenente, per così dire, a una sorta di casta di nuovo tipo?
R.P. L’uomo della liturgia, nel senso profondo di questa espressione, si impegna nella realizzazione di una vocazione e non nella gestione di una professione. La vocazione non ti fa né migliore né peggiore, ma ti conferisce una responsabilità incaricandoti di svolgere un ruolo. Favorire la mediazione vuol dire spesso fare opera di pace dal punto di vista sociologico – ma anche nell’ambito della liturgia, quale almeno io la intendo, cioè come quella cosa che deve aiutarci a superare, non direi la piattezza, ma la dimensione puramente biologica della vita dell’uomo, senza tuttavia negarla. È così che sono stato iniziato, nel senso forte del termine, al sacerdozio, il quale – e in questo sono molto tradizionale – a motivo della iniziazione non può che essere affare di alcuni soltanto. E torno quindi alla sua domanda.
L’esistenza di un sacerdozio ministeriale specifico è affermata dal concilio Vaticano II, il quale, nella costituzione Lumen Gentium, ricorda che c’è una differenza fondamentale fra il sacerdozio regale dei cristiani e il sacerdozio di iniziazione sacramentale. E questo lo accetto; ma lo faccio interpretando la relazione appena menzionata fra le due dimensioni dell’unico sacerdozio: il vero sacerdozio, il sacerdozio regale, ha la sua sede nell’uomo, nell’umanità in quanto tale – in seno al cristianesimo esso riguarda l’insieme dei battezzati –, laddove l’altro, e cioè il sacerdozio ministeriale, è una realtà seconda, del tutto subordinata alla prima; quelli che assumono questa vocazione non possono in effetti essere iniziati in favore degli altri se questi altri non hanno già in sé ciò che fa di loro degli iniziati. In una parola, il sacerdozio ministeriale (il nome stesso lo dice) è al servizio del sacerdozio regale del cristiano – e, mutatis mutandis, dell’uomo.
Gw.J. Secondo lei, dunque, è un più corretto approccio ontologico di fondo a determinare questo rovesciamento dei fattori?
R.P. Sì. L’intuizione cristiana di fondo è in effetti che ogni uomo è sacerdote, e ciò in forza dell’iniziazione battesimale che in linguaggio cristiano «dis-copre» in noi la nostra realtà di figli di Dio. La ricerca di questa pienezza dell’uomo, di ogni uomo: è questo che costituisce il mio sacerdozio fondamentale, che io ho in comune con tutti gli uomini. Quanto al sacerdozio ministeriale che ho accettato di assumere, esso non può costituire, in questa prospettiva, una superiorità, ma occupa un posto e una funzione nel cuore di quel sacerdozio regale al quale appartiene ogni uomo dacché si vuole iniziato a una vita pienamente umana.
L’iniziazione particolare, dunque, non è richiesta, in senso stretto, per attualizzare la pienezza dell’essere umano. Anche una carriera profana richiede una iniziazione particolare, non foss’altro che quella di alcuni anni di studio, porta d’ingresso verso l’esercizio di questa o quella professione. L’iniziazione all’umanità, alla pienezza dell’uomo, è invece, di un ordine più essenziale, e non dipende da una cosa o dall’altra. Non è la nascita da sola a conferirci l’iniziazione particolare, e nemmeno questa o quella funzione; così come bisogna prima nascere per essere iniziati all’umanità, direi
ugualmente che nel caso specifico bisogna essere prima preti per poter essere iniziati al sacerdozio. In tutto questo, infatti, quel che conta è lo strato di fondo che corrisponde al sacerdozio di ogni uomo; quello che in effetti determina la differenza fra l’uomo e il resto dei viventi, è che l’uomo è sacerdote, mediatore tramite la sua coscienza. L’uomo è infinitamente più che un animale – malgrado tutta la neurobiologia e la manipolazione dei geni.
È in questo modo che io ho compreso il sacerdozio: si tratta di accettare un ruolo che si manifesta nell’essere, molto più che in questa o quella attività. Che poi ci siano modi diversi di esercitarlo, è altra questione.
Gw.J. Se ciò che importa veramente per ogni uomo in quanto uomo è il sacerdozio regale, bisogna intendere che la sua vocazione particolare, quella di prete cattolico, poggia totalmente su di esso?
R.P. Certamente. Il sacerdozio ministeriale, quale io l’ho assunto, poggia totalmente sul sacerdozio regale e riceve da esso la sua legittimità. Altrimenti, non avrei potuto essere ordinato prete. Non entro qui nella problematica del battesimo e delle molte forme dell’iniziazione umana.
Gw.J. La funzione sacerdotale si inserisce dunque nella vocazione più essenziale che è quella di ogni essere umano. Se le cose stanno così, ritiene giusto che si escluda la donna dal sacerdozio ministeriale, in altre parole che si riconosca soltanto all’uomo la possibilità di essere «sacerdote» in senso ministeriale?
R.P. Oggi questo fatto viene avvertito come un’ingiustizia. Durante un convegno di una ventina d’anni fa, avanzai la tesi che potesse essere prete ogni persona che ne sia capace – nel senso che abbia le conoscenze richieste e la maturità necessaria, lo voglia liberamente e vi sia chiamata. L’assemblea del convegno dei vescovi d’Asia approvò questa opinione senza alcuna obiezione. Nella sessione successiva, un gesuita mi domandò in maniera molto diretta: «Lei ritiene dunque che le donne possano esserlo? – Io sono contro ogni discriminazione», mi contentai di rispondere; e aggiunsi sorridendo: «Forse dobbiamo vedere un segno della nostra perdita dell’innocenza originaria se nella fattispecie continuiamo a prendere in considerazione il sesso e non la persona – esattamente come prima si operavano discriminazioni in base al colore della pelle...».
Fino all’inizio dell’Ottocento, i filippini, che costituiscono la popolazione più cattolica di tutta l’Asia, non potevano aspirare al sacerdozio perché erano ritenuti incapaci di comprendere le sottigliezze della teologia scolastica che veniva insegnata loro in latino... Abbiamo qui un bell’esempio di discriminazione culturale. Ora, la più grande discriminazione fatta in questo ambito è di aver emarginato le donne per il semplice fatto che sono donne. Che è un atteggiamento determinato da quelli che, ormai da tempo, sono anacronismi culturali, antropologici e religiosi.
Aggiungo che gli argomenti di coloro che difendono questa interdizione non reggono. Personalmente, comunque, nel tentativo che faccio di continuo di comprendere le ragioni per cui le cose vanno in un certo modo e non in un altro, mi costringo ad analizzare un certo numero di argomenti addotti a sostegno dell’interdizione. Devo dire che, se si tratta semplicemente di accontentare le femministe ammettendole al sacerdozio così come viene esercitato fino ad oggi dai maschi, non è che si faccia un gran guadagno. Il ritardo accumulato nell’ordinazione delle donne può aiutarci a scoprire che un’ordinazione
sacerdotale dovrebbe essere, in ogni caso, altra cosa che un affare di clan. Se le donne non facessero che imitare i maschi in materia, sarebbe forse una buona cosa per molte ragioni, ma nell’insieme il passo avanti sarebbe davvero molto modesto. Esse avrebbero allora accesso a quella che viene considerata la dignità clericale, ma questo non farebbe che rafforzare il clan come tale. A questo mi oppongo. Credo, infatti, al sacerdozio, ma non credo alla casta sacerdotale. La questione dunque non è di fare in modo che le donne vengano a consolidare la casta sacerdotale, ma di trasformare tale casta. Penso che il ritardo nell’accesso delle donne al sacerdozio potrebbe rivelarsi nel corso del tempo un fattore positivo per conseguire questo fine.
Gw.J. La sua argomentazione fondamentalmente mi convince. Direi tuttavia, a mo’ di battuta, che ove mai le donne entrassero in quella che lei chiama la casta, potrebbe darsi che la facciano scoppiare!
R.P. Ne sono sicuro; ma è importante che la casta ceda tanto per effetto di influenze dall’esterno quanto per pressione dall’interno. Ma conosco molte donne che sarebbero preti magnifici, tanto che la casta ne risulterebbe di molto consolidata. Questo è ciò che temo. Poiché dobbiamo ammetterlo, con ogni probabilità in generale esse riuscirebbero molto meglio degli uomini.
Gw.J. Direi che esse procedono in maniera diversa, ed è proprio questa maniera diversa che ci manca tanto. Se ci fosse l’occasione per manifestarsi e affermarsi, penso che molte cose cambierebbero quasi da se stesse.
R.P. Può darsi che lei abbia ragione, ma non va minimizzata la forza del sistema. Potrà qualche donna capitano o magari anche generale trasformare l’esercito? Bisogna certo denunciare la situazione della disciplina attuale; ma bisogna ricordare che Gesù non ha ordinato nessuno. E non ha istituito come apostolo nessuno che non fosse ebreo... Durante i primi tre secoli, il sacerdozio fu una cosa molto aleatoria; anche il compito di presiedere


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